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L' isola degli schiavi - 1994-95

autore: Pierre De Marivaux
traduzione: Giorgio Strehler
regia: Giorgio Strehler
scene: Ezio Frigerio
costumi: Luisa Spinatelli
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia dell'Isola degli schiavi

Appunti sullo spettacolo L'isola degli schiavi, pubblicati sul programma di sala

Appunti su L’isola degli schiavi

 

Dal programma di sala stagione 1994/95

     

La divina ambiguità

     

Ho rimandato a lungo l’incontro con Marivaux. Ma, nei momenti chiave del mio lavoro, il desiderio di confrontarmi con il suo teatro si è fatto sempre più necessario. Mi è stato accanto quando ho affrontato la Tempesta di Shakespeare. Mi ha inseguito nelle peripezie dell’Illusion di Corneille.

L’ho ritrovato nel nostro viaggio attorno a Goldoni, nel nostro progetto (purtroppo ancora non realizzato!) dei Mémoires. Oggi Marivaux è qui. Con un “piccolo” testo come L’isola degli schiavi. Con il suo messaggio di disincantata tolleranza, la sua utopia. Con la sua lucidità, la sua umanità, il suo mondo in cui si confrontano gioco e dialettica. Il mondo dei padroni, incerti fra l’arroganza del comando e il trionfo dell’amore, quello dei servi che lo raddoppia e lo contraddice.

Per molto tempo, nel teatro di Marivaux, i servi sono stati considerati come le “scimmie” dei loro padroni e i loro comportamenti come lo specchio, deformante e grottesco, talvolta addirittura comico, del modo di essere di chi li comanda. Eppure, in tutte le sue commedie, Marivaux ci dice proprio il contrario. I servitori hanno una loro personale esistenza: se copiano il modo di fare dei loro padroni, se li secondano nei loro intrighi, è per soddisfare i propri bisogni, i propri desideri; ma la realizzazione di questi desideri passa attraverso i bisogni o i capricci dei loro padroni. Come sostiene Arlecchino in L’isola degli schiavi, i servitori sono più saggi dei loro signori. Se sembrano più divertenti, più buffi è perché la buffoneria è l’unico modo che hanno per esprimersi ciascuno avrà ripreso il ruolo che gli compete, che ci sia comprensione e rispetto di tutti per tutti. Possiamo aspettarci che Marivaux sogni non tanto che abbia fine la divisione della società in classi, ma, piuttosto, l’infelicità che si accompagna all’ingiustizia sociale. Dopo il soggiorno nelle sue isole mitiche, che ci riportano alla memoria l’isola della Tempesta di Shakespeare, autore da lui molto amato (per questo ci sarà la nave della “nostra” Tempesta proveniente da altri mari, da altri naufraghi a rendere visibile questo ideale legame), Marivaux approda a una società “positiva”, fondata su di un nuovo accordo fra servi e padroni, fra il cuore e la ragione, fra la parola e la verità, dove sarà finalmente possibile, senza rischiare, essere buoni e, soprattutto, essere se stessi.

Un’utopia che è un miraggio: una volta tornati ad Atene i servi dell’Isola degli schiavi crederanno di essere stati ingannati? Lontano dalla protezione di quel filosofo-mago che è Trivellino si ritroveranno nella stessa, dura, situazione di un tempo? E la società ideale che sognavano non apparirà loro come un paradiso perduto? Divinamente ambiguo, Marivaux non risponde. Ma noi sentiamo che quello che gli interessa davvero (e a noi con lui) è che il pubblico comprenda la lezione dopo aver visto gli uomini diventare, grazie a un nuovo gioco, generosi e ragionevoli. Teatro nel teatro, commedia nella commedia. È recitando e rappresentando che i personaggi di Marivaux, sempre giovani, se non anagraficamente perlomeno scenicamente, perché cominciano a vivere nel momento misterioso in cui si alza il sipario, hanno qualche possibilità di raggiungere l’Amore e la Verità. Vivono (o rivivono?) un inizio ideale del mondo e della società. Ma la loro giovinezza e il loro potere d’invenzione sono illusori e tutti i loro stratagemmi, le loro “sorprese”, in apparenza non scalfiscono l’ordine delle cose. Tutto sembra già esistere nella stretta connessione fra gioco e necessità, fra libertà del teatro e fissità della vita sociale. Ma durante il tempo dello spettacolo, con i soli che si sostituiscono alle lune, ci si può scambiare i ruoli, ci si può travestire, indossare una maschera. Tutto è permesso, perché ci è quasi impossibile stabilire una separazione fra falsità e sincerità e solo al teatro è concessa la divina leggerezza di un’utopica giovinezza e di una favolosa libertà. Marivaux esalta il teatro, lo esplora, ne celebra la potenza, la mette in dubbio. Parte dal sogno, dall’utopia, dall’idea di un viaggio di cambiamento e di conoscenza, e lo adatta agli usi della società in cui vive. Lo fa diventare quasi troppo reale: sta a noi fermarci prima sul ciglio dell’abisso, con il cuore e lo spirito ben vigili.

Metamorfosi, cambiamento. Poesia del gesto. Magia della parola. Leggerezza. Il gioco dei bambini.

Non dimenticare mai che Marivaux è un autore di commedia, ma non un autore comico. La metamorfosi è travestimento, maschera. E se di lui è stato detto che, nel corso del viaggio del teatro all’improvviso dei comici dell’arte a quello del testo scritto, ha dato un cuore ad Arlecchino, quanto c’è in questo itinerario creativo, in questa trasformazione drammaturgia e spirituale, in questo cambiarsi della maschera in personaggio, di natura, di ragione, di emozione? Come non vederci un annuncio, pur nelle ovvie differenze, del rapporto tra fra i due libri del Teatro e del Mondo dal quale nasce la riforma del Teatro e del Mondo dal quale nasce la Riforma di Goldoni.

Nel “tempo teatrale” della ragionevolezza e dell’analisi che è proprio di Marivaux, in questa scomposizione e ricomposizione dei ruoli e delle situazioni, fra amori, rifiuti, odii e rivolte, tutto è necessario: parola, gesto, sguardo. Anzi, sta proprio qui la reale dissimulazione, ai quali Marivaux offre un mondo intero da scoprire.

Crudeltà, ma anche self-control; cortesia, ma anche politesse e nessun cinismo. Forse, alla fine di quest’Isola degli schiavi, che sta per iniziare il suo viaggio, i signori saranno più umani, più giusti. Forse i servi avranno capito che il cuore dei signori non è poi tanto diverso dal loro. Forse. È la sconvolgente novità di un testo che non è certo un punto periferico nella produzione di questo autore. Ancora una volta, la divina ambiguità di Marivaux.

     

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